Il 50% ha paura…

1 Nov 2010 | Editoriali

EDITORIALE DI ELIO ROSSI

Le cronache di questi ultimi mesi sono piene di casi di malasanità. Liti in sala parto, errori chirurgici, diagnosi sbagliate sembrano essere all’ordine del giorno. Partorire oppure essere ricoverati in ospedale sembra essere diventato un percorso di guerra, dove i benefici ottenuti sembrano spesso non compensare i rischi corsi. Sarà per questo che una recente indagine condotta a livello europeo indica che il 50% dei cittadini dei 27 paesi membri dell’Unione teme di subire danni durante il ricovero ospedaliero (Eurobarometro 2010).

Già diversi anni fa, negli anni ‘90, destò grande impressione la notizia comparsa su una prestigiosa rivista scientifica che evidenziava come gli eventi avversi delle terapie rappresentavano la quarta causa di morte negli USA. Se ne parlò molto e il dato fu anche contestato, ma è stato anche recentemente confermato che gli eventi avversi rappresentano il 9.2% dei ricoveri ospedalieri (Quality and Safety in Health Care 2009). Molti di questi eventi sono determinati dalle infezioni nosocomiali, le stesse che hanno portato, per esempio, poche settimane fa una giovane di 22 anni, ricoverata per una banale asportazione di una cisti coccigea, alla setticemia con conseguente massiva amputazione degli arti e poi alla morte. E non si può dire che questo sia stato un avvenimento casuale. In Italia infatti si calcola che le infezioni contratte in ambiente ospedaliero siano l’8.7%, circa 700.000 su 9.5 milioni di ricoveri all’anno con almeno 15.000 decessi (dati Amcli 2010) con circa 3 milioni e 700.000 giorni di ricovero aggiuntivi e un costo complessivo, aggiuntivo rispetto al costo dei normali ricoveri di 1865 milioni di euro. Un altro fenomeno interessante da seguire per il suo costante incremento è quello delle querele ai sanitari da parte dei pazienti. Le denunce dal 1994 al 2008 si sono triplicate passando da 10 a 30mila e annualmente ammonterebbero, secondo i dati diffusi dall’ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), a 7.500 per le strutture sanitarie, 8.500 per i medici, per un totale di 15mila.

L’80% dei chirurghi ha ricevuto almeno una richiesta di risarcimento o un avviso di garanzia per presunta malpractice, e si ritiene che i sanitari italiani trascorrano 1/3 della propria vita lavorativa sotto processo. Circa un terzo delle richieste di risarcimento viene rigettata, ma il 55% di queste viene pienamente accolta e il 10% lo è parzialmente.

Secondo l’A.I.O.M. (Associazione Italiana Oncologia Medica), i costi di questo sistema, calcolati su base annuale, sarebbero pari all’1% del Pil italiano, 10 miliardi di euro l’anno e l’incremento dei procedimenti legali nei confronti dei sanitari ha fatto aumentare i prezzi delle assicurazioni sui rischi professionali per i chirurghi del 600%. Inoltre le regioni hanno speso nel 2006 almeno 558 milioni di euro, e sicuramente la cifra è in questi anni lievitata, dato che oltretutto si è passati da un importo medio per il risarcimento di 16.500 euro nel 2002 a 30.000 nel 2008. Tutto questo può essere certamente considerato il prezzo del cambiamento del nostro sistema sanitario, la conseguenza del passaggio da un sistema sanitario fondato su un modello “paternalistico” che riconosceva al medico autorità e prestigio, a un sistema sanitario “contrattualistico” in cui in sostanza, le relazioni tra medico e paziente sono regolate tramite un contratto in modo da ripartire equamente obblighi e benefici attesi. Ma come si è visto dai dati precedentemente esposti, questo rapporto sembra essersi ormai profondamente logorato e ben lontano da quella “alleanza terapeutica” da tutti auspicata. Le prestazioni sono governate dai DRG e anche l’atteggiamento dei pazienti, dei cittadini, sembrano essere condizionato dal valore economico delle stesse che dalla loro ricaduta in termini di miglioramento della salute. Nell’ambito delle medicine naturali questo contratto, ora trasformatosi in un conflitto semipermanente, può essere più facilmente onorato; in questo contesto il rapporto medico-paziente appare ispirato ai principi della solidarietà e all’obiettivo comune di ottenere, attraverso cure dolci, il benessere psicofisico ad un prezzo accettabile.

Non voglio con questo affermare che all’interno delle medicine non convenzionali il conflitto non esista, che rappresenti un problema che riguarda solo la medicina convenzionale, ma certo l’alleanza terapeutica fra medico e paziente che si costituisce a partire da una scelta di “altre” terapie appare più forte e consapevole.

Questo non ci esime dall’affrontare problemi che esistono ormai in forma dilagante nella sanità italiana (occidentale) e rischiano di esplodere anche in questo settore: un modello di medico ancora ispirato al paternalismo, la difficoltà di rendere il sapere medico condiviso, la mancanza di una vera e propria carta dei servizi che induca i medici di medicina complementare ad essere più solidali con il paziente (e anche come categoria) a garantire la propria assistenza in modo continuato e che permetta al paziente di esprimere un vero consenso informato, inteso non solo come difesa medico-legale ma che rappresenti una vera presa di coscienza sul significato della scelta terapeutica operata.